Torre San Severino

Torre San Severino




Torre San Severino

Il complesso rurale di Torre San Severino è adiacente all’ultimo tratto di via San Nullo, prima di arrivare a Licola ed al Depuratore di Cuma. Di esso ne dà notizia già lo storico di Giugliano Fabio Sebastiano Santoro, nel suo libro Scola di Canto Fermo del 1715, allorquando elencando i diversi Conventi presenti a Giugliano, lo cita quale Convento dei Padri Cassinesi che ben presto lo trasformarono in grancia (fattoria) (1); per la verità Santoro parla di Ospizi, ma ciò che voleva indicare erano appunto i Conventi, i quali, ospitavano anche le persone, che bussavano alle loro porte.
Il Convento era situato nella campagna tra Cuma e Liternum ed in esso ogni anno veniva celebrata la Santa Messa, la domenica dopo Pasqua, nella piccola Cappella annessa al complesso, dal Parroco di San Giovanni Evangelista che aveva la propria giurisdizione ecclesiastica in gran parte della zona costiera di Giugliano (2).
Il complesso venne domato nel 750 da Gisulfo, Duca di Benevento, ai Padri Cassinesi; tale territorio in cui era ubicato il complesso di Torre San Severino, era prima denominato Genziana (3).
C’è da dire che la Congregazione dei Padri Cassinesi è una delle congregazioni monastiche che costituiscono l’Ordine di San Benedetto. Torre San Severino viene anche citata da Agostino Basile, quando descrive le più importanti masserie presenti a Giugliano (4).
La storia del complesso di San Severino, probabilmente, ebbe il suo inizio già in epoca romana. Esso serviva allo stazionamento delle truppe romane in viaggio tra Liternum e Miseno, ove stazionava la flotta Romana comandata da Plinio il Vecchio, così come ci racconta lo scrittore romano Plinio il Giovane, nella sua prima lettera a Tacito, in cui narra dell’eruzione del Vesuvio, avvenuta nel 79 d.C., che distrusse Pompei ed Ercolano. La Torre, che già doveva esistere, anche se in forma diversa, faceva parte della serie di Torri dislocate sul litorale flegreo per l’avvistamento dei pirati Saraceni e per la segnalazione di altri pericoli o di richieste di aiuto, attraverso comunicazione ottica, tramite l’accensione di fuochi notturni o di fumate durante il giorno.
Intorno al secolo XII, il complesso fu annesso al monastero dei Santi Severino e Sossio di Napoli. La grancia funzionò come un’azienda agricola, con personale sia laico che ecclesiastico, fino alla Repubblica Napoletana del 1799 (5), che durò solo alcuni mesi, sull’onda della prima campagna d’Italia (1796-1797) delle truppe della repubblica francese, dopo la Rivoluzione. Poiché i monaci benedettini furono tenaci sostenitori della Repubblica Napoletana, dopo la restaurazione del Re Ferdinando IV, ritornato a Napoli dopo la fuga in Sicilia, furono espulsi dal Regno dopo la confisca dei loro beni; esso fu così utilizzato dalla Corte di quest’ultimo e dalla Duchessa di San Teodoro, Teresa Caracciolo, come sala da ballo e da ricevimento, oltre che come residenza di caccia (6).
Dopo il ritorno dei Borbone, la masseria di Torre San Severino, così come altri beni, fu assegnata in modo provvisorio a diversi cittadini che vivevano nelle zone adiacenti, fino a quando con un apposito decreto, Don Andrea Palma, delegato dei Borbone sul territorio, l’affidò a Don Pasquale Dentice del casale di Mugnano; affidato poi dal Re Ferdinando IV al Duca di San Teodoro, Ambasciatore del Regno delle Due Sicilie alla Corte di Spagna, fu da questi venduta al banchiere Filippo Micillo, che trasformò il complesso di Torre San Severino in una azienda agricola (7). Da allora, la famiglia Micillo è proprietaria del complesso che attualmente è adibito a location per eventi e per banchetti.
Il complesso ha un’ampia corte centrale, come accadeva in tutti i Conventi; sul lato ovest c’è un ampia aia che originariamente era tutta in lapillo, prima che una parte venisse lastricata di basalti, su cui si provvedeva alla lavorazione dei vari prodotti agricoli coltivati nel terreno circostante (granturco, fagioli, piselli, etc) e allo stoccaggio provvisorio di tali prodotti. Sul lato nord vi è una grosso edificio rettangolare (51,10 m. x 7,10 m.) che era prima adibito, al piano terra, a refettorio; l’ingresso alla corte avviene mediante un’enorme androne con volta a botte, alla sinistra del quale vi è una piccola Cappella, mentre il lato prospiciente via San Nullo era prima adibito a stalla (8). Ai piani superiore dei diversi lati vi sono delle residenze, al posto di quelle che prima dovevano essere le celle dei monaci. I tetti sono quasi tutti a due falde, tranne alcuni tratti, come quello sul lato est, dove c’è l’androne d’ingresso. che sono piani.
Quasi nell’angolo nord-est, internamente alla corte, è situato l’elemento architettonico che caratterizzava l’intero complesso rurale; una torre cinquecentesca. Essa era a pianta rettangolare, con basamento a scarpata e bocche di lupo, con i lati di base di dimensioni 14,25 m. x 16,50 m. ed un altezza di circa 30 m. (9). Essa era composta oltre che dal piano terra, da altri 4 piani; la copertura era a quattro falde, caratterizzate al centro, da un lucernario a forma di piccola torre. Col venir meno delle esigenze difensive, alla fine del ‘700, la torre fu dotata di due portali d’accesso e della copertura a falde. Sul basamento è murata una lapide marmorea, molto rovinata, in cui si legge appena il nome di Ferdinando IV; è probabile che essa si riferisse alla confisca della masseria ad opera del governo borbonico.
Attualmente, si possono osservare solo i tre piani inferiori, poiché i due piani superiori ed il sovrastante tetto, crollarono, durante il secondo conflitto mondiale, nel settembre/ottobre del 1943, in seguito ai bombardamenti dei tedeschi e ad un incendio che si sviluppato dai soldati americani, che vi bruciarono gli animali morti, per scongiurare una possibile epidemia (10).
Il materiale portante usato quasi esclusivamente è il tufo giallo flegreo, di cui poco lontano ci sono alcune cave da cui esso veniva estratto.

Note
1) Cfr. Fabio Sebastiano Santoro, Scola di Canto Fermo, Stamperia di Novello de Bonis, Napoli, 1715, pag. 100.
2) Cfr. Ibidem.
3) Cfr. Agostino Basile, Memorie istoriche della Terra di Giugliano, Stamperia Simoniana, Napoli, 1800, pag. 70.
4) Cfr. Ivi, pag. 101.
5) Cfr. Giovanni Sabatino, Aspetti territoriali e testimonianze storico architettoniche dell’area giuglianese, AbbiAbbè Edizioni, Giugliano, 2005, pag. 41.
6) Cfr. Ivi, pag. 43 e segg.
7) Cfr. Archivio di Stato di Napoli, Sezione Monasteri Soppressi, Pand. n. 1905, Atti di sequestro n. 33.
8) Cfr. Giovanni Sabatino, Op. cit., pag. 41 e segg.
9) Cfr. Ivi, pag. 43.
10) Cfr. Ivi, pagg. 44 e 45.

Giugliano in Campania, lì 29.09.2017
Architetto Francesco Taglialatela Scafati